C’è qualcosa di grottesco nel vedere una potenza commerciale mondiale accettare in silenzio una rapina a mano armata di dazi. Trump ha deciso: il 70% delle esportazioni UE sarà colpito. E se andrà male, si salirà al 97%.
L’Unione Europea, di fronte a questa offensiva, cosa fa?
Si riunisce. Si appella alla calma. Promette che “sarà pronta”. Ma non reagisce. Anzi, mette tutto in sospeso. Ancora una volta.
Il vicedirettore per il commercio della Commissione lo dice chiaramente: bisogna mantenere sangue freddo, perché “una misura di ritorsione non deve essere un fine a sé”.
Traduzione? Se ci colpiscono, dobbiamo pensarci bene prima di rispondere. Magari mai.
Siamo passati da una strategia commerciale a una terapia di gruppo.
La verità è che a Bruxelles si continua a credere nel potere taumaturgico del negoziato, anche quando l’interlocutore ha già piazzato la bomba sotto il tavolo. E così mentre ci impongono tasse su minerali critici, legname, rame, farmaci e aviazione, noi ci limitiamo a dire che “non è il momento di reagire”.
Non solo: mentre Trump chiude il portafoglio americano, qui c’è chi vuole fare la figura del bravo scolaretto che rispetta le regole anche quando gli rubano la merenda.
La Commissione prepara contromisure che non verranno mai usate, elenca strumenti di difesa che resteranno strumenti, mai azione, e promette che “ci sarà tempo per decidere”. Nel frattempo, l’industria europea si lecca le ferite e si chiede quanto ancora dovrà sopportare l’umiliazione di essere governata da chi confonde la prudenza con la paura.
Trump impone.
L’Europa subisce.
E chi prova a parlare di orgoglio europeo viene zittito in nome della “responsabilità istituzionale”.
Ma a forza di incassare, l’Unione non è più forte. È solo più debole.
E gli Stati Uniti lo hanno capito benissimo.