Strasburgo, luglio 2025. La plenaria si apre come sempre: tappeti troppo puliti, caffè troppo cari, parlamentari troppo presenti per essere davvero lì. Al centro della scena, Ursula von der Leyen — che non cade, non trema, non arretra. Perché in questo Parlamento, nemmeno le mozioni di sfiducia hanno il coraggio di essere reali.
Si discute, si finge, si recita. Ma nessuno fa davvero.
La recita dei disperati (o dell’opposizione che non sa opporsi)
Socialisti e liberali alzano la voce. Non per cambiare le cose, ma per ricordare al Partito Popolare Europeo che esistono ancora. È un risentimento elegante, calibrato, da chi ha perso il potere ma non la pretesa di contare. “Se ci tradite ancora…” minacciano. Poi dicono che voteranno comunque per mantenerla al suo posto. Il Parlamento europeo è così: le guerre si combattono solo nei comunicati stampa.
La donna che non cade mai
Von der Leyen sorride. Irride. Parla di “fake news”, chiama i suoi avversari “complottisti”, “putiniani”, “anti-vax”. È il tono di chi sa che non succederà nulla. È il teatro di chi recita una sfiducia sapendo già che sarà salvata. Si permette persino di dire che “Pfizergate” — le sue chiacchierate via SMS con il CEO di Pfizer — è una montatura. “Una bugia”, testuali parole. Come se chiamarla così bastasse a cancellare le domande. Strumentalizza le bare di Bergamo per salvarsi la faccia. Schifo.
Il Parlamento, cioè il nulla ben pagato
La verità? Nessuno in quell’aula decide davvero. I MEP si muovono come attori di terza fila in una soap opera che non guarda più nessuno. I discorsi sono scritti da altri, le opinioni dettate dai gruppi, le alleanze comprate al mercato dell’incoerenza. Le mozioni si sollevano come il sipario: solo per dare l’illusione che qualcosa stia accadendo. E’ il gioco delle parti, ne ricaveranno dei bei comunicati stampa e video per i social.
Gli sciacalli fanno il gioco dell’Unione — e viceversa
La destra firma la mozione di sfiducia. Ma come ogni bel nemico, fa il favore più grande: compatta il fronte. “Putin sarà soddisfatto”, dicono von der Leyen e Weber, “i suoi amici siedono qui con noi”. Intanto le stesse destre collaborano in commissione per far passare emendamenti. È la pantomima perfetta: combattersi in aula, brindare insieme alle serate coi lobbisti.
Le aquile cieche
Nicola Procaccini, co-presidente dei Conservatori e Riformisti, condanna la mozione — firmata da pezzi del suo stesso gruppo. Spiega che questa è la Commissione “più di destra della storia” e che la sfiducia è un errore strategico. Ha ragione. Ma lo dice come se il Parlamento servisse davvero a qualcosa. Come se non sapesse che la sua vera funzione è sembrare un campo di battaglia mentre serve da deposito di equilibri già scritti. Le unghie sullo specchio si sono sentite fino a Roma.
La sinistra che sogna ancora i fondi europei
“Non possiamo più accettare che l’EPP flirti con l’estrema destra”, urlano socialisti e Renew. Ma tra una denuncia e l’altra, si preparano a votare la fiducia a von der Leyen. Sanno che senza di lei rischiano l’irrilevanza. Ed è meglio contare qualcosa in un sistema rotto, che doverne costruire uno nuovo. La maggioranza è di nuovo compatta.
Il Parlamento è Westminster? Ma per favore.
Manfred Weber prova a fare il fine: “Qui non siamo a Westminster!” — come a dire: noi siamo migliori, più moderati, più europei. Ma il sottotesto è chiaro: siamo più noiosi, più prevedibili, più inutili. Nessuno si prende la briga di fare vera opposizione. E la parola “crisi” si consuma prima ancora di cominciare.
Le parole che non fanno male a nessuno
Durante il dibattito, si sono dette cose gravi. Ma il tono era sempre quello: solenne, astratto, scollegato dalla vita vera. “Serve un’Europa forte.” “Bisogna agire.” “È fondamentale fare chiarezza.” Ogni frase era una variazione della stessa bugia: che tutto ciò abbia un senso.
Gli alleati e i camaleonti invisibili
“Chi sono i tuoi veri alleati, Ursula?” chiede Valérie Hayer. Nessuno risponde. Perché non serve. Gli alleati si trovano non tra i banchi del Parlamento, ma nei numeri e nei silenzi. Le decisioni non passano da lì. La democrazia è simulata, non esercitata.
Medvedev e la misoginia da discount
Intanto, fuori, Medvedev definisce von der Leyen una “ginecologa malvagia”. Il Cremlino, sempre elegante. Eppure la cosa non scandalizza più nessuno. Fa parte del paesaggio — come le mozioni senza esito, i voti inutili, i badge ben visibili. La volgarità del potere è internazionale. Ricordo a Medvedev che ti ci ha messo al mondo una donna, imbecille!
La Germania ci pensa, ma non troppo
La delegazione tedesca dei Socialisti minaccia l’astensione. Forse. Forse no. “Decideremo mercoledì,” dice Repasi. Come se contasse qualcosa. Come se ci fosse davvero un dubbio. La sfiducia non passerà. Perché nessuno vuole cambiare davvero e perché socialisti e popolari sono alleati sia in Germania che a Bruxelles. La solita farsa.
La destra che si guarda allo specchio, ma non si riconosce
Gridano, si astengono, poi votano. Fingono di opporsi, ma si accomodano quando c’è da contare. Il caos interno alla destra è un equilibrio instabile su cui si regge tutta la farsa: abbastanza rumore da sembrare dissidenti, abbastanza presenza da non essere esclusi. E così, mentre qualcuno urla alla tirannia di Bruxelles, qualcun altro salva la Von der Leyen. Speriamo per qualcosa di valore in cambio.
La sinistra degli avvoltoi che predica pulizia con le mani nel Qatar.
Mentre i socialisti accusano la destra di frode sui fondi e connivenze con potenze straniere, pochi hanno il coraggio di ricordare che proprio da sinistra è partito il “Qatargate”. Valigette, contanti, fondazioni opache. Parlano di trasparenza con lo stesso tono con cui si dimenticano di restituire i soldi. È la politica del “noi siamo migliori”, finché qualcuno non apre i cassetti.
I vincitori sono sempre fuori da Strasburgo
L’unico che può ridere — e forte — è Vladimir Putin. L’Unione è divisa, confusa, impantanata. Ma la macchina continua a girare, come un carillon rotto che nessuno ha il coraggio di fermare.
E alla fine, ci rivediamo giovedì
Si vota giovedì. Von der Leyen rimarrà. I gruppi si ricomporranno. I giornali scriveranno che l’Europa ha superato la prova. E tutto continuerà come prima. Con gli stessi equilibri, le stesse voci, gli stessi rituali. Un Parlamento che non fa paura a nessuno perché non decide nulla. Una democrazia che recita se stessa come una vecchia commedia che nessuno ha più voglia di vedere, ma che tutti fingono ancora di applaudire.
Il Parlamento che si fa schiaffeggiare ma con metodo
La cosa più umiliante, più strutturale, più scandalosamente accettata? Questo Parlamento che si riempie la bocca di “legittimità democratica” e si commuove a ogni invocazione di “trasparenza” — è lo stesso che si lascia esautorare, derubricare, ignorare. Non da un colpo di Stato, ma da un banale articolo del Trattato.
L’articolo 122 del TFUE: la scorciatoia legale con cui la Commissione, insieme al Consiglio, può scavalcare tutto e tutti “in caso di emergenza”. Lo usano per i vaccini, per i fondi militari, per le crisi energetiche. Lo invocano come l’assicurazione sulla vita di un sistema che non si fida della propria democrazia interna.
E il Parlamento? Sta zitto. O peggio: applaude.
Si fa schiaffeggiare in pubblico da un esecutivo che non perde occasione per ricordargli quanto sia superfluo. Si indigna nei corridoi, poi firma il registro presenze. Prende la diaria, si sistema il badge, sorride per le foto.
Un Parlamento che pretende di essere ascoltato, ma accetta di non contare. Una finzione lucida, costosa, accomodante. Il vero potere è altrove. E loro lo sanno. Ma continuano a parlare. Perché finché parlano, possono fingere di esistere.