A Washington si alzano i dazi, a Bruxelles si alzano le mani in segno di resa. Donald Trump scrive una lettera per annunciare che dal 1° agosto le esportazioni europee saranno colpite da tariffe del 30%, e qual è la reazione della Commissione europea? Un grande, sonoro: aspettiamo e vediamo.

Siamo passati dalla “Commissione che non arretra” alla Commissione che congela tutto, contromisure comprese. Congelate a luglio. Congelate ad aprile. Congelate anche le spine dorsali, evidentemente.

L’idea? Lasciare tutto sospeso nella speranza che Trump rinsavisca. O faccia marcia indietro. O si dimentichi. E nel frattempo l’Unione si convince che “due settimane sono tante per trattare”, come se avesse davanti un interlocutore in buona fede e non uno che l’ha già presa a sberle con l’acciaio, l’alluminio e le automobili.

Il messaggio è chiaro: Trump attacca, l’Europa prende appunti.

La tanto decantata anti-coercion instrument, il famoso “bazooka normativo” per difendersi da chi abusa della nostra apertura commerciale? Dimenticato in cantina. Non uno strumento di difesa, ma una reliquia da museo, buona per i convegni e le slide.

Von der Leyen si dice convinta che un accordo sia possibile. Peccato che non spieghi perché dovremmo continuare a fidarci di chi ci ha già fregati almeno tre volte. Né spiega perché continuiamo a prendercela con chi vorrebbe reagire, come Macron o Sánchez, e non con chi ci minaccia apertamente — sorridendo.

Nel frattempo Berlino detta la linea, Meloni applaude silenziosa, e Friedrich Merz si autoproclama regista invisibile della “grande trattativa” mentre Trump gioca con il calendario come se fosse una palla da baseball.

A forza di non reagire, abbiamo fatto della debolezza una linea politica.

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